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Monumento ai deportati della comunità ebraica di Trieste

La Sinagoga di Trieste imbrattata da militanti fascisti, ottobre 1941 – Archivio della Comunità ebraica di Trieste.

Nel settembre del 1938, durante la sua visita a Trieste, Benito Mussolini annunciò dalla tribuna eretta di fronte al Municipio che «L’ebraismo mondiale è stato, durante i sedici anni, malgrado la nostra politica, un nemico inconciliabile del partito». Così facendo, il dittatore introduceva di fatto le leggi razziste antiebraiche.

Per tutto l’ebraismo italiano queste costituirono un vero e proprio shock, ma a Trieste l’impatto fu ancora più devastante. La comunità triestina era tra le più numerose del Regno, non aveva mai dovuto affrontare pericolose esplosioni di antisemitismo, e ormai da decenni gli ebrei locali erano ben integrati a tutti i livelli della società locale. Molti di loro avevano anche condiviso – in qualche caso addirittura guidato – la lotta irredentista, vedendo nell’Italia uno Stato all’avanguardia nel processo di emancipazione. Una percentuale rilevante di persone ebree, o di origine ebraica, aveva supportato (e supportava) il fascismo.

A partire dall’autunno 1938, però, chi era considerato ebreo si vide allontanato da scuola o dal posto di lavoro e via via privato dei propri diritti, quando non addirittura della cittadinanza italiana. I vertici di alcune delle più prestigiose realtà locali, come la RAS o le Generali, si videro di fatto decapitati. Solo pochi individui riuscirono ad ottenere la cosiddetta “discriminazione”, concessa a quanti avessero guadagnato meriti particolari al servizio dell’Italia o del fascismo.

La situazione, già tragica, peggiorò ulteriormente durante la Seconda guerra mondiale. Gli anni tra 1943 e 1945, in particolare, furono tra i più duri e drammatici per Trieste e tutto l’Alto Adriatico. Dopo l’8 settembre l’intera area, denominata Operationszone Adriatisches Küstenland (Zona d’Operazioni del Litorale Adriatico), venne di fatto annessa al Reich. Ciò comportò un ulteriore inasprimento della persecuzione razziale e politica, di cui la Risiera di San Sabba divenne un tragico simbolo. Lì operarono alcuni dei più spietati attori della “soluzione finale”, veterani delle atrocità naziste nei ghetti e nei campi di sterminio della Polonia. Lì passarono – e morirono – migliaia di donne e uomini considerati nemici del Reich e dei suoi progetti: antifascisti, partigiani, ebrei.

Secondo le legislazioni nazista e della Repubblica Sociale a stabilire l’appartenenza di qualcuno alla “razza ebraica” non era tanto la professione di fede, quanto presunti criteri biologici. Agli occhi delle autorità dell’OZAK chi si era convertito, o chi ancora ai tempi dell’Austria si era dichiarato konfessionslos (privo di affiliazione religiosa) rimaneva ebreo, così come erano ebrei i loro figli e discendenti: bastava che nelle loro vene scorresse una certa percentuale di “sangue ebraico”.

Chi poteva permetterselo cercò la salvezza fuggendo in Svizzera o entrando in clandestinità, ma per molti – in particolare appartenenti ai ceti meno abbienti – simili spiragli erano preclusi. I tedeschi, aiutati da collaborazionisti locali, da militari e funzionari di Salò come i componenti della famigerata “banda Collotti” e da un costante flusso di denunce e delazioni, arrestarono nella Venezia Giulia circa 1200 ebrei poi inviati verso i lager e, salvo pochissime eccezioni, là morti.

Il monumento ricorda una parte di queste vittime. Sulle due semplici ma imponenti colonne di marmo sono riportati i nomi delle 687 persone iscritte alla Comunità ebraica di Trieste che non fecero ritorno dalla deportazione, testimonianza delle sofferenze patite da una comunità prostrata dalla guerra e dalle persecuzioni e che, per quanto sopravvissuta, si vide da quel momento in poi radicalmente trasformata nella sua struttura e nelle sue caratteristiche.

Lettera inviata dalla Comunità israelitica durante la raccolta fondi per la costruzione del monumento (luglio 1950).
 Articolo del Giornale di Trieste che commenta l’inaugurazione del monumento – Giornale di Trieste, 21 settembre 1950, pag. 2.
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