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Rodolfo e Gina Brunner
I Brunner, una delle “grandi famiglie” dell’Ottocento triestino, erano originari della cittadina austriaca di Hohenems, a pochi chilometri dal confine con la Svizzera. Qui a inizio ‘800 il capostipite Heinrich, commerciante di bestiame, aveva posto le basi delle loro fortune. Suo figlio Jacob si era invece dedicato alla produzione e al commercio di tessili, creando assieme ai fratelli una ramificata rete commerciale con basi in tutta Europa. Alla “casa madre” di Hohenems si collegarono la Svizzera, Manchester, capitale mondiale dell’industria tessile e, soprattutto, Trieste: emporio, piazza commerciale in crescita, porto dell’Impero.
Nel 1832 Jacob si trasferì proprio nella città adriatica, raggiunto dopo poco dal fratello dodicenne Hiersch, che qui assunse il nome Carlo. Dopo alcuni anni passati nella ditta del fratello e in tirocini nelle principali piazze europee, Carlo si mise in proprio, finanziando con successo svariate attività commerciali ed industriali, dalla navigazione, alle assicurazioni, alla raffinazione del petrolio. Suo figlio Rodolfo, nato a Trieste nel 1859, ne proseguì l’attività. Cosmopolita, multilingue, si interessò anche all’agricoltura, ampliando i possedimenti delle tenute ereditate dal padre nella Bassa friulana e goriziana, apportandovi miglioramenti e razionalizzando la produzione.
Tra Otto e Novecento queste case di campagna divennero teatro della vita sociale e dei raduni di un’estesa famiglia ebrea sparsa ai quattro angoli d’Europa. I suoi costumi, le sue abitudini, erano comunque quelli di un gruppo perfettamente integrato ed aderente ai canoni e ai codici dell’alta borghesia del tempo, dalle “villeggiature” in campagna, al rituale dei salotti, alla passione per la musica. L’ebraismo non era stato però abbandonato. Non c’era più l’osservanza dei precetti praticata in passato ad Hohenems, ma i Brunner rimanevano tra i principali contribuenti e leader della Comunità di Trieste, le principali festività erano ancora rispettate, così come continuavano politiche matrimoniali endogamiche.
Questo era stato anche il caso di Rodolfo, che nel 1888 aveva sposato la correligionaria Gina Segrè, sorella dell’industriale e finanziere Salvatore, futuro conte Segrè-Sartorio. L’endogamia era religiosa/culturale e di classe, ma non sempre politica e nazionale. Salvatore Segrè, infatti, era tra i pochi membri dell’élite economica triestina ad essere apertamente irredentista e vicino agli ambienti del nazionalismo italiano. Rodolfo, al contrario, rimase un leale suddito dell’Impero asburgico.
Foto della famiglia Brunner nella loro tenuta di Cavenzano di Campolongo. Rodolfo è il primo in piedi da sinistra, la moglie Gina la prima seduta da sinistra, il figlio Guido è seduto a terra – Collezione privata.
Lo scoppio della Prima guerra mondiale inferse un colpo mortale al mondo che, pur con mille compromessi e contraddizioni, era in qualche modo riuscito a far coesistere appartenenze ed opinioni e molti si sentirono obbligati a scelte di campo spesso tragiche e laceranti. Tra loro anche Guido Brunner, figlio di Rodolfo. Chiamato alle armi nell’esercito austriaco, alla prima occasione utile disertò e, respinti tutti i tentativi di persuasione del padre, si arruolò come ufficiale nell’esercito italiano. Fu il primo shock per Rodolfo che, ritiratosi nella sua tenuta di Cavenzano di Campolongo, venne lì sorpreso dall’avanzata delle truppe italiane nel 1915 e quindi internato come suddito nemico in una sua proprietà a Forcoli, in Toscana. Lì l’anno successivo avrebbe appreso della morte di Guido, caduto sull’altipiano di Asiago. Quest’ultimo, insignito della medaglia d’oro al valor militare, sarebbe stato poi inserito nel pantheon dell’irredentismo giuliano.
Conclusa la guerra, Rodolfo rientrò a Trieste e, anche grazie ai buoni uffici del cognato, riprese il proprio posto nell’economia cittadina, anche se in una posizione più defilata. Sfuggito alle persecuzioni razziali nazifasciste riparando nella stessa tenuta toscana in cui aveva passato la precedente guerra mondiale, morì a Trieste a 97 anni nel 1956, testimone degli anni più movimentati, intensi e tragici, di Trieste e di tutto il XX secolo.